La Yolo Economy? Non sempre è come la raccontano. Il film “Yes Man” per capirla meglio

You only live once oppure, come si sente più spesso nella sua forma di acronimo, Yolo Economy: è il movimento nato negli Stati Uniti in stretta correlazione con il fenomeno della Great Resignation, ovvero le dimissioni volontarie dal proprio posto di lavoro, solitamente poco flessibile e ancor meno gratificante.

Un fenomeno attivo prevalentemente per le professioni del settore tecnologico, di comunicazione e marketing e, in generale, in tutto il comparto dei servizi. 

Yolo è un acronimo di origine incerta, reso celebre negli ultimi anni dal rapper Drake e da Kevin Roose, editorialista esperto in tecnologia per il New York Times, che lo ha utilizzato per contestualizzare il fenomeno delle grandi dimissioni in un articolo di Aprile 2021.

Esauriti e dotati di risparmi alcuni lavoratori stanno lasciando un lavoro stabile in cerca di un’avventura post-pandemica.

Kevin Roose sul New York Times, aprile 2021

Parole che meritano una dovuta contestualizzazione. Sulla Yolo Economy infatti si è detto e scritto di tutto, a volte senza un reale filo conduttore: dall’essere solo una copertura per i più giovani per sentirsi liberi di oziare e non assumersi alcuna responsabilità, a espressione di autentico coraggio, passando per una sovrapposizione con lo smart working e per la crisi dei ruoli manageriali nelle aziende.

I Millennials: una generazione vasta
e investita dal cambiamento

Una prima precisazione riguarda proprio i Millennials, di cui anch’io sono esponente, principali protagonisti del fenomeno della Yolo Economy. Chi siamo? Una generazione che racchiude chi attualmente ha tra i 25 e i 41 anni.

Un abisso sotto ogni punto di vista: percorso di studi, approccio al lavoro ed esigenze di vita. In effetti, come generazione vogliamo mostrarci allo sbando già nel definirci: molti nati all’inizio degli anni ‘80 faticano a riconoscersi nello stesso calderone di chi invece è arrivato nel mondo anche più di dieci anni dopo. 

I Millennials sono anche coloro che più di tutti hanno assistito all’innovazione digitale su larga scala: dai walkman a cassette alle playlist online, così come alla diffusione dei cellulari o l’avvento dello stesso internet prima ancora che dei social network, tanto per citare alcuni esempi. 

Che dire poi, dell’esordio nel mondo del lavoro? I primi Millennials hanno vissuto fortemente il mito del posto fisso, la garanzia di una sistemazione per la vita, forti dell’esperienza dei propri genitori e sostenuti da un mercato che fino al 2008 offriva molte più sicurezze. 

Mi sono diplomata all’istituto tecnico nel 2007: ricordo bene i discorsi di florida motivazione che mi accompagnarono all’iscrizione all’università. Secondo i miei professori, i parenti e tutti coloro che vedevo adulti, avrei osservato il mio stipendio raddoppiare nel giro di massimo tre anni dalla laurea. In realtà, a parte piccole gratificazioni, l’ho visto diminuire progressivamente nei dieci anni dalla discussione della mia tesi.

Quindi, quando sento affermare che i Millennials sono incontentabili, figli del mito del tutto e subito, senza volontà e impegno, torno con la mente a quando, piena di ideali e di ingenue speranze, mi sono affacciata al mondo del lavoro: era il 2010, e dopo un anno e tre contratti di stage avrei iniziato a capire come, chi era passato da quel rito di iniziazione molto prima di me, avesse barattato la crescita professionale dei nuovi assunti per un disperato tentativo di mantenimento dello status quo.

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