Ci siamo: con l’inizio di Febbraio non solo ci siamo finalmente tolti dalle spalle la gravosa sensazione che Gennaio rappresenti un anno a sé, le tormentate elezioni del Presidente della Repubblica, le terze dosi e la salita dell’indice RT, ma siamo anche stati catapultati nel psicodramma collettivo che è il Festival della Canzone Italiana.
Non c’è pandemia che tenga, dopotutto: il Festival [letto rigorosamente alla Baudo] non si è fermato neanche nel 2021 quando, con un mese di ritardo sul rodato appuntamento, in onda sono apparsi un teatro vuoto e una serie di artisti smarriti anche più di noi spettatori.
Cosa rende però Sanremo IL Festival? Perché sopravvive da ben 72 anni, quando altre manifestazioni ben più accattivanti per l’opinione del pubblico si diluiscono in una manciata di edizioni? Rispondere non è facile, ma ecco la mia personale opinione.
Sanremo è un brand
La base: Sanremo è un nome alla portata del pubblico più generalista, che racchiude al suo interno una vastissima rosa di significati. Lo conosce mia figlia di 4 anni, che ha imparato a cantare Musica Leggerissima dopo due ascolti lo scorso anno [autocensurandosi la parola “merda”, ma questa è un’altra storia] e aspetta ansiosa nuove hit, così come il settantenne che non manca di citare con nostalgia le performance di Mina o Claudio Villa. Fuori dal giudizio personale, non c’è dubbio che Sanremo sia parte della cultura popolare del nostro Paese.
Sanremo è generalista, ma non generico
Amadeus ha il merito di aver richiamato il pubblico giovanissimo anche quest’anno, con la partecipazione tra gli altri di Mahmood e Blanco, Achille Lauro, Sangiovanni, Irama. Non sono delusi nemmeno i trenta/quarantenni con Elisa, Emma, La Rappresentante di Lista, Noemi, Giusy Ferreri, Vibrazioni… Abbiamo persino gli storici, come Morandi e Ranieri.
Un Festival che riesce nell’impossibile missione di promettere almeno un cantante di riferimento per ogni target, creando quella comprensibile discrepanza di valutazione che distanze siderali di età e genere non possono che alimentare.
Inoltre da sempre il Festival si autoassegna, con risultati variabili, l’obiettivo di raccontare l’Italia che cambia con interventi comici, monologhi, sportivi, attori, ospiti… Quest’anno l’apertura è stata affidati di nuovo a Fiorello, ad Ornella Muti e ai reduci da un periodo straordinario per la musica italiana: i Måneskin [di cui la nana è grande fan dall’età di 3 anni] e i Meduza. Due generi musicali diversi e distanti, sia tra loro che dalla media dell’audience del Festival. Ed ecco che la polemica, pardon, il dibattito è servito.
Sanremo era sociale prima dei social. Ma li usa bene.
In principio erano le famiglie che si riunivano davanti alla televisione, il giornale comprato il giorno dopo, la chiacchiera al bar, in fabbrica o in ufficio. Poi sono arrivati i forum e i social, e adesso persino il FantaSanremo [sì, pare che Gianni Morandi lo abbia citato davvero a fine canzone], che fanno correre commenti ed opinioni molto più velocemente. Quanto? Lo possiamo vedere da una semplice ricerca con Google Trends negli ultimi 30 giorni. La salita è esponenziale.

Ogni conduttore, ogni direttore artistico lo sa: la regola aurea del purché se ne parli, tanto citata nei commenti più beceri alla kermesse, è vera solo fino ad un certo punto. L’ideale, ovviamente, è la versione riveduta e corretta: purché se ne parli bene. In questo senso, Amadeus è riuscito divinamente in questi tre anni a sintetizzare il concetto, apportando piccole innovazioni e garantendo anche qualche scivolone abilmente rimaneggiato, tanto per non far morire il pubblico di noia.
Era il 2020, il Covid era ancora materia cinese e a parte me e un’altra manciata di ipocondriaci tenuti a bada da Roberto Burioni la domenica sera da Fazio, nessuno se ne preoccupava veramente. In attesa che tutto il mondo apprendesse come infilzare con sicurezza una puntina da disegno nell’esatto punto del globo in cui sorge Codogno, in Italia impazzava la finta polemica del passo indietro: niente è apparentemente cambiato mille giorni dopo, con due battute e un tirato mea culpa siamo tutti felicemente tornati a commentare le esibizioni di Achille Lauro, i vestiti dei Måneskin e le immancabili borsettine di Loredana Bertè, superospite la scorsa edizione.
Troppi argomenti, per fossilizzarsi su una sola questione. Dopotutto, chi ha davvero prestato attenzione in questi giorni alla critica del Green Carpet e dei finanziamenti all’evento elargiti da Eni, in quello che secondo Greenpeace è un perfetto esempio di greenwashing?
Sanremo è una comfort zone: un format vecchio, che non vuole essere rivoluzionato
Ogni volta che sento parlare di rivedere la struttura di Sanremo rido. Perché è opinione comune che sia troppo lungo, in termini di numero di serate e di durata di ciascuna puntata, che alcuni ospiti siano liquidati in pochissimo mentre altri abbiano persino troppo spazio [ehm, Fiorello l’anno scorso dice qualcosa a qualcuno?]. Bisognerebbe focalizzarsi di più sulle canzoni ma poi 25 in gara sono troppe, non bisognerebbe parlare troppo, ma poi come? Va già via? Bisognerebbe dare la conduzioni alle donne, ma ci riempiamo gli occhi della bellezza e del sorriso sempre smagliante di Ornella Muti che racconta con quanti uomini di cinema abbia avuto il privilegio di lavorare.
Rassegnamoci: non siamo pronti per un format più inclusivo al di là della superficie, che non regali fiori a nessuno, che abbia il coraggio di affrontare problemi ben più reali della misurazione della temperatura agli ospiti. Sanremo è la settimana della leggerezza per eccellenza, e solo una minima parte dell’audience è impaziente di trovarsi di fronte ad artisti che facciano pensare a qualcosa di più di un cuore spezzato.
Cosa si può imparare da Sanremo?
Tantissime cose, davvero. La straordinaria macchina del Festival macina da marzo a febbraio, mettendo i paletti per le future edizioni, vagliando gli artisti da mettere in gara, centellinando le notizie, rilasciando poco a poco tutte le informazioni che il pubblico anela [quest’anno, poi, ]. Una struttura comunicativa mastodontica che tiene sotto scacco artisti, giornalisti, critici e pubblico per tutto l’anno e che trova solo il suo apice nella settimana di evento. Perché Sanremo in fondo è:
- pianificazione.
- pianificazione.
- gestione dell’imprevisto.
- pianificazione.
Ed è questo approccio professionale calibrato al millimetro, rodato e ammortizzato da centinaia di professionisti che rende il Festival una corazzata resistente a tutte le bordate che, anno dopo anno, cercano di scalfirla.
Vuoi capire come la pianificazione possa essere applicata anche alla tua realtà, o provare un approccio diverso alla tua comunicazione? Scrivimi: fra.vergerio@gmail.com