Questa volta ce l’ho fatta: prima delle premiazioni dell’Academy e in concomitanza con i BAFTA sono riuscita a vedere “Il potere del cane” (The Power of the Dog). Per me, che ultimamente rincorro i film premiati e sostanzialmente finisco per farmi influenzare da quello che leggo, è stata finalmente una possibilità per confrontarmi con questo lungometraggio tanto acclamato (e mediamente lungo: 2 ore e 8 minuti) senza troppi preconcetti per la testa.
Netflix e i cinema: non opposti, ma complementari
Prima di scrivere le mie impressioni, un doveroso inciso: capisco la frustrazione di molti artisti rispetto alla recente crescita delle piattaforme di streaming e comprendo la bellezza della proiezione in sala, ma da utente non posso che ringraziare per questa opportunità. Non tanto per i costi, anche se questo incide, o per la pandemia, ma proprio per il mio assetto familiare: con i nani in giro per casa ritagliarsi il tempo per assistere a una proiezione di un film dedicato ad un pubblico adulto, seppur emotivamente e sensorialmente senza pari, è utopia. Io poi che vedevo nella privazione del cinema uno dei più grandi scogli della maternità, mi trovo ai limiti della commozione quando posso essere parte del flusso di informazioni attorno all’uscita del momento, e non subirlo passivamente.
Il western e l’eredità di Sergio Leone
Altro grandissimo inciso, derivante da quello che vedevo come un grande scoglio valutativo per “Il potere del cane”, è l’ambientazione in un ranch in Montana, anno 1925. L’inconscio paragone è subito verso il mito dell’infanzia, la noia dei weekend casalinghi scanditi dai colpi di pistola di Clint Eastwood e Lee Van Cleef nei loro Spaghetti Western o al più con l’allegra baraonda di Bud Spencer e Terence Hill. Con queste premesse, approcciare un western è sempre un’esperienza pedagogica, prima ancora che artistica. Perché un western moderno potrà anche essere profondo, curato, studiato, ma non avrà mai quella magia tipica dei primi sguardi al narrato.
Jane Campion: una regista che domina magistralmente il carico emotivo
Jane Campion, su questo, ne esce da meritevole vincitrice. Se nell’adolescenza ero attratta da una regina dinamica e spettacolare, man mano che mi avvicino all’età adulta (il mio approccio alla maturità è molto affine a quello Hobbit, e in questo senso non sono neanche 365 giorni che mi sono lasciata alle spalle gli irresponsabili anni tra l’infanzia e la maggiore età) apprezzo i movimenti di macchina lenti, l’indugiare della cinepresa sul personaggio a fuoco e il progressivo allargamento all’ambiente circostante, la presenza fisica prima ancora che verbale. In tutto questo, Jane Campion riesce a trasmettere esattamente quello che ha in mente: l’isolamento perenne, il senso di inadeguatezza, la rabbia sopita.
Benedict Cumberbatch, Kirsten Dunst, Jesse Plemons e Kodi Sit-McPhee: un cast a fuoco
Su Kirsten Dunst non posso essere obiettiva, né qui né in altri lungometraggi. Lei per me accende lo schermo fin da Intervista col Vampiro, e il suo progredire non toglie nulla alla sua luce. Che sia una commedia romantica come Elizabethtown o un prodotto adolescenziale come Ragazze nel Pallone, una trasposizione come Il giardino delle vergini suicide o un blockbuster alla Spider-Man, non posso fare a meno di esprimere tutta la mia approvazione incondizionata. Anche in questo caso, dove invece sul personaggio di Rose Gordon nutro forti riserve, non riesco a non scindere l’artista con il soggetto.
Meno amore ma sicuramente tanta stima per Benedict Cumberbatch, avvezzo mio malgrado a ruoli che fatico a digerire (uno su tutti, impresso anche se breve, il Paul Marshall di Espiazione) ma di cui è indubbio il talento empatico. Il suo Phil Burbank graffia lo schermo esattamente come ferisce l’animo di Rose Gordon e, pur non mancandogli la loquacità, riesce a trasmettere la maggior parte delle sfumature del suo carattere con la presenza fisica.
Apprezzati anche Jesse Plemons e Kodi Sit-McPhee: entrambi delicati nell’ingresso in scena, si dimostreranno su fronti opposti determinanti. Due caratteri sfumati, volutamente controversi, seppur in misura e con prospettive diverse.
Il soggetto: debolezze, ruoli incasellati e un flusso temporale solo accennato
A danneggiare un po’ il quadro tecnicamente idilliaco è proprio il soggetto in sé, forse ancora troppo influenzato dal periodo storico in cui Thomas Savage lo ha scritto. Phil accartoccia rancore e omofobia addosso ad un sentimento omossessuale per il suo mentore forse non profondamente chiaro nemmeno a lui, e il fatto che lo rifugga totalmente non costituisce a lungo una scusante, anche perché diversi spiragli di comprensione si fanno largo tra i cinque atti.
George appare risoluto nella gestione del rapporto con il fratello, per niente succube del suo giudizio, ma si dimostra debole e cieco nei confronti delle esigenze di Rose. Un ruolo forse spiegabile con una presenza femminile assente (la Vecchia Signora non ne esce per nulla bene nei pochi riferimenti fatti), che sarebbe potuto essere, ma di fatto non è.
Rose scivola troppo presto nel ruolo di femmina dannata da salvare da sé stessa, imprigionata nell’alcolismo che prima di lei teneva sotto scacco il marito morto suicida. Debole, arrendevole e passivamente conscia della sudditanza psicologica in cui fin da subito la pone Phil, non riesce mai a far emergere quel suo lato battagliero e tenace che sicuramente possiede, per aver saputo mantenere un figlio e una locanda da sola per un lasso variabile di tempo.
Infine Peter, che passa troppo velocemente dalla vittima al carnefice, dal ragazzo delicato e sensibile al sadico vendicatore. La contrapposizione del cameriere debole e sprovveduto al freddo studente di medicina che orchestra senza il minimo rimorso un avvelenamento consumatosi sull’altare della fiducia e di un’aleggiante tensione sessuale è così netta da renderla inverosimile, in quello che appare come solo un anno di tempo.
In questo forse non aiuta nemmeno la gestione delle tempistiche: nonostante la divisione in atti, lo scorrere degli eventi è confuso sulla linea temporale. Lo spettatore può solo indovinare dai dettagli quanto tempo sia trascorso da un avvenimento all’altro e questo, pur essendo per me un approccio più apprezzabile della spiegazione didascalica, finisce con il disorientare.
Cosa ne penso, in fin dei conti?
Un film che sicuramente raggiunge uno standard molto elevato, ma non decolla totalmente. La regia promette uno sguardo approfondito sui personaggi, che vengono però castrati da dialoghi e situazioni. Una prova attoriale superba, ma anche un’occasione sprecata per trasporre veramente l’opera originale in un prodotto più sfumato, meno stereotipato, meno influenzato dall’attinenza all’idea originale e più propenso al rischio di trasmettere una nuova visione, forse non pulita o coerente, ma sicuramente più aderente alla complessità del nostro tempo.